Molto spesso rami di ulivi, tralci di vite e fusti di fichi d’india nascondono vecchie cicatrici: ruderi abbandonati che manifestano la fierezza di far parte della rossa e calda terra del Salento. Sono le masserie l’oggetto indiscusso della nostra memoria, la testimonianza vera e radicata di ciò che siamo.

Ognuna con una sua storia, esse appartengono alla categoria dell’edilizia rurale storica; ognuna con caratteristiche sue proprie che, per cause storico-sociali, economiche e politiche, le differenziano dalle cascine toscane e da quelle lombarde, dai casali laziali o di altre regioni. Sono state queste diversità che hanno determinato forme, relazioni sociali e vita all’interno di esse e che hanno finito per influire e diversificare, anche strutturalmente, le masserie dagli altri edifici rurali italiani.
Tutte diverse ma accomunate da un unico grande pregio: aver visto nascere, crescere ed evolvere i nostri avi, piccole comunità di contadini che vivevano in quei grandi agglomerati; che si incontravano con gli abitanti delle masserie vicine; che lavoravano, che si stancavano, che si innamoravano tra quelle mura.
Mura spesse, costruite con antiche tecniche specifiche della nostra terra; mura che si innalzavano fiere e che si raccordavano al cielo con maestose volte a stella

La storia delle masserie è indissolubilmente legata a quella dell’Italia meridionale che è storia travagliata, storia di miseria, di violenza, di sopraffazione, di ignoranza, di diritti negati, storia che affonda le sue radici nell’antichità. L’origine del termine “Masseria” va infatti ricercata nel concetto di “massa” (in latino classico genericamente “blocco”, “riunione”), con il quale, nel periodo decadente dell’impero romano venivano denominati vasti complessi fondiari formati da grandi aggregati rustici, variamente articolati al loro interno nella gestione e nella conduzione, generalmente di proprietà pubblica o ecclesiastica.

Con l’arrivo dei Borboni nel meridione, tra il secolo XVI e il secolo XVII, la tipologia della masseria subì sostanziali cambiamenti, in quanto questi espropriarono i feudi ecclesiastici passandoli alla borghesia rurale che organizzò il latifondo in masseria: un insieme di beni immobili (tra costruzioni rustiche e terreni di varia natura) affidati alla amministrazione della emergente figura del massaro che coordinava il lavoro  dei contadini.

Nel XIX secolo, con l’applicazione in Italia del Codice Napoleonico, furono assegnati ai contadini poveri terre demaniali per uso semina, pascolo o legna, ma le quote furono così piccole che i contadini per poter sopravvivere si videro costretti a venderle. Così facendo nel meridione la borghesia rurale continuò ad essere dominante facendo perdurare il latifondo, che nel resto d’Italia si era già disgregato da tempo. Verso la fine dello stesso secolo i signori scelsero le masserie come loro residenza per controllare l’andamento delle attività; a tale scopo nacquero le “masserie-palazzo” che segnarono un periodo di massima efficienza.

Nel XX secolo, dopo i conflitti mondiali, le condizioni dei contadini peggiorarono e con il motto “la terra a chi lavora” si emanò la “Riforma Agraria” che espropriò e frazionò i latifondi. La vita nelle masserie subì notevoli ridimensionamenti e molte di loro furono abbandonate o utilizzate diversamente, modificando abitudini e bisogni.

Durante questi secoli di continui capovolgimenti politici, e spesso in situazioni storiche non favorevoli, la masseria è comunque stata per molti uomini centro di polarizzazione dei propri destini, in quanto, intese come centro di aggregazione di lavoratori e delle proprie famiglie, hanno assunto la funzione di un vero e proprio polo per tutte le conoscenze. Esse, infatti, sono riuscite a far convergere discipline come l’agronomia, l’economia, l’ecologia, l’architettura, l’urbanistica e tante altre, diverse a seconda del contesto in cui ognuna era inserita.
Di esse colpiscono la funzionalità e la razionalità che predominano nella partitura degli ambienti, la sapiente modulazione di spazi interni ed esterni e la grande armonia e delicatezza con le quali si inseriscono nell’ambiente circostante, segno di un perfetto equilibrio tra uomo e natura. Tutto ciò è legato a fattori naturali che possono riguardare il sito in cui esse stanziano, o in riferimento ai materiali e alle tecniche costruttive; ma ciò che le ha caratterizzate dal punto di vista strutturale e architettonico è legato al tipo di colture praticate, alle esigenze locali, all’organizzazione familiare e produttiva, alla necessità difensiva e ad altri aspetti che oggi ci manifestano la necessità, i ritmi e i modi di vita delle popolazioni del Salento fino a non molti anni or sono.

Gli edifici includevano parti essenziali, come le abitazioni dei residenti (con aree riservate ai padroni, ai coloni ed ai pastori), i magazzini per gli attrezzi e le sementi, le stalle per i buoi, i recinti e le tettoie per le pecore, l’aia per la trebbiatura, “la pajara”, il casolare per la trasformazione del latte, il forno, ecc.
L’approvvigionamento, la conservazione e la distribuzione dell’acqua era garantito da varie strutture quali pozzi, cisterne e pile, usate anche per abbeverare gli animali.

Altre strutture edilizie sono da considerarsi accessorie, in quanto la loro presenza era condizionata da numerose variabili, una fra queste la grandezza della masseria: la presenza di una cappella ad esempio se non motivata da istanze devozionali o di prestigio, dipendeva dal numero dei residenti convenuti stagionalmente; il mulino invece costituiva una struttura di servizio aperta anche al pubblico esterno. Condizionante era anche l’indirizzo agronomico, come quelli viticolo ed oleicolo per la presenza del trappeto e del palmento.
Molto diffuse erano le strutture per l’allevamento degli animali da cortile, come “lu jaddhrinaru” e “lu palummaru”.
Il giardino inoltre, da sempre inteso come lo spazio murato riservato alla frutticoltura, anche se rivestiva uno spazio fisico in genere ridotto, divenne pian piano un componente stabile della masseria sviluppando, a seconda della sua grandezza, ora un ruolo di semplice complemento all’alimentazione della colonìa, ora una propria linea gestionale autonoma.

Purtroppo, poco sensibili a ciò che ci circonda, tutti noi non le abbiamo curate così come lo erano un tempo; le abbiamo totalmente abbandonate arrivando, per molte di esse, a farle crollare su se stesse, facendole diventare ruderi a volte ingombranti che hanno coperto, con le proprie macerie, anni di storia vissuta che non tornerà più.

Ogni cosa di questo passato ha la possibilità di rivivere solo ed esclusivamente se noi saremo visitatori attenti e sensibili verso ogni piccolo elemento (naturale o trasformato dall’uomo) che incontreremo durante la nostra esistenza: non impegnarsi per salvaguardare questo ambiente significa farne morire il ricordo e condizionare negativamente il futuro.
 

Francesco Panna e Dolores Bardicchia

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